C’è una scena di Alien: Covenant dove l’androide David (Michael Fassbender) cita alcuni versi di Ozymandias, celebre sonetto di Percy Bysshe Shelley, mentre osserva le rovine del mondo degli Ingegneri: “Il mio nome è Ozymandias, re di tutti i re. Ammirate, Voi Potenti, la mia opera e disperate!”. Le parole del faraone sembrano rispecchiare la hybris che accomuna lo stesso David al regista Ridley Scott, e che sta portando la saga di Alien verso un orizzonte sempre più confuso e ambiguo, gravato da ambizioni ormai insostenibili nell’economia del franchise.
Questo è evidente sin dal prologo, uno straniante flashback che mostra la “nascita” di David e le prime avvisaglie del suo conflitto interiore: troppo umano per non mettere in discussione le sue direttive, l’androide s’interroga sull’origine propria e del suo creatore, restando deluso da una risposta presuntuosa e insoddisfacente. Come Prometheus ci aveva già suggerito, Scott rintraccia la genesi di Alien nel mistero della creazione e nell’impossibilità di risolverlo, con le relative conseguenze di frustrazione e follia. L’enigma è un muro di gomma che respinge ogni tentativo di analisi, ed è forse così che si spiega la continua reiterazione del solito modello narrativo: anche stavolta abbiamo a che fare con l’ignaro equipaggio di una nuova missione, e anche stavolta l’orrore è una scoperta inedita, come se i coni d’ombra dell’universo fossero impossibili da illuminare, e si dovesse continuamente ripartire da capo. Di nuovo, ci ritroviamo nella posizione di partenza: la Covenant, nave coloniale terrestre, è in viaggio verso un lontano pianeta abitabile, ma una violenta tempesta di neutrini costringe gli astronauti a svegliarsi dal sonno criogenico, uccidendo al contempo il Capitano Branson (James Franco), marito di Daniels (Katherine Waterston). Il pilota Tennessee (Danny McBride) esce per riparare le vele solari, e capta una strana trasmissione proveniente da un pianeta sconosciuto, molto più vicino rispetto alla meta originaria della Covenant, e altrettanto abitabile: poiché nessuno ha voglia di trascorrere altri sette anni nel crio-sonno, il nuovo Capitano Oram (Billy Crudup) fa tracciare la rotta per il pianeta misterioso, dove l’equipaggio trova un mondo lussureggiante e apparentemente disabitato. Ovviamente la realtà è ben diversa, e gli esploratori si ritrovano circondati da spaventose infezioni, orrendi neomorfi e ancor più brutali xenomorfi.
L’incipit da space opera conferma l’espansione della saga verso una fantascienza di più ampio respiro, non ancora metafisica o contemplativa, ma sicuramente più portata per l’astrazione e la riflessione. Il vecchio topos del segnale misterioso riconduce Alien: Covenant sui binari del fanta-horror, ma senza mai abbracciarne totalmente i codici: se è vero che talvolta Scott sembra rifare il primo Alien, i segmenti da slasher spaziale risultano però incastonati in un discorso più vasto e pretestuoso, dove il regista non perde occasione per citare Shelley, Wagner o Böcklin in un pastiche di riferimenti colti, tentando di far convivere tra loro le grandi aspirazioni verbali, musicali e figurative del film. In tal modo, Covenant arranca tra l’esigenza di fare entertainment e l’ambizione a costruire una teogonia cosmica dove scienza e religione trovino un insperato accordo, a metà strada fra il mondo sensibile e quello sovrasensibile. L’inutile complicazione della mitologia non giova affatto al franchise, tutt’altro: il film originale non aveva bisogno di grandi spiegazioni, ma funzionava bene anche per l’essenzialità del suo impianto narrativo, trasportando gli schemi dello slasher (e in parte della “casa stregata”) nel gelo dello spazio profondo; tutte le sue possibili diramazioni filosofiche o psicanalitiche restavano implicite, sussurrate a fior di labbra ma mai dichiarate apertamente. In Prometheus e Covenant, invece, il regista inglese fa l’opposto, diventa didascalico e si perde nelle sue elucubrazioni sull’origine della vita, attribuendo sfumature trascendenti a quella che, un tempo, era una cruda epopea di carne, urla e sangue. In alcune sequenze con David si rischia persino il ridicolo involontario, nonostante Scott punti su una messinscena raffinata e introspettiva.
Non aiuta il fatto che la sceneggiatura incappi negli stessi errori del passato, inanellando una serie di incongruenze logiche – Prometheus docet – che superano i limiti della sospensione d’incredulità. Non solo i personaggi hanno uno scarsissimo istinto di autoconservazione, ma risultano anche banalmente intercambiabili, come figurine monodimensionali che si distinguono a stento tra loro: il discorso riguarda persino Daniels, eroina di sconfortante piattezza, ma paradossalmente non coinvolge i due androidi Walter e David, riconoscibili per la diversa caratterizzazione “psicologica” nonostante siano fisicamente identici. Il massacro che ne consegue non manca di tensione o di sequenze ben dirette (alcune scene d’azione sono di ottima fattura), ma il racconto fatica a trovare il giusto equilibrio, soprattutto in una parte centrale dove certi snodi narrativi appaiono troppo affrettati, mentre altri rischiano di girare a vuoto.
Difficile immaginare come proseguirà la saga, e soprattutto come si ricollegherà al primo Alien senza stravolgerne le premesse. La compulsione a riproporre il passato in una nuova veste – piuttosto comune nella Hollywood dei reboot – ha generato un bizzarro ibrido che pare frutto degli esperimenti di David, indeciso tra la genuinità delle origini e la necessità di arricchirne la ricetta: l’esito, però, è troppo caotico per affascinare davvero.
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